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Villa marittima di epoca romana di Lio Piccolo a Venezia: emergono le stanze di servi e schiavi, strutture connesse alla produzione del sale

Si è conclusa sabato 29 giugno l’attività 2024 della campagna di scavo archeologico sulla Villa Romana del sale nel sito di Lio Piccolo, portata avanti dal Progetto Vivere d’Acqua, archeologie tra Lio Piccolo e Altino, diretto dal professor Diego Calaon, coordinato dalla professoressa Daniela Cottica dell’Università Ca’ Foscari Venezia e realizzato in collaborazione con il Comune di Cavallino-Treporti e la Soprintendenza ABAP per il Comune di Venezia e laguna dal 2019.

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Le novità più importanti della campagna di quest’anno riguardano la forma della villa, i ricercatori hanno capito come erano organizzati i suoi spazi, c’è una parte che dava sull’acqua, verso la laguna,  parte abitativa residenziale di alto livello, con i pavimenti a mosaico, poi i quartieri dei lavoratori, un grande cortile con pozzo per l’acqua piovana ed un grande magazzino di legno nel retro per le attività produttive.

 

“Ma l’elemento più nuovo, e unico nel panorama veneto, spiega Diego Calaon – è la scoperta, nella parte produttiva della villa di stanze quadrate, dei vani, dei cubicola, di poco meno di 3 metri per lato. Sono stanze da letto e di servizio per chi faceva funzionare la struttura, vi lavorava e risiedeva in maniera permanente, ma anche spazi dove venivano messi gli attrezzi da lavoro. Sono i lavoratori della Villa di età romana, che possiamo immaginare come servi e schiavi: abitavano queste stanze e costituivano il motore produttivo dell’edificio”.

Dalle ricostruzioni si intuisce che le aperture – le finestre – per far passare luce ed aria, dovevano essere ridotte al minimo, anche se non si conservano i muri perimetrali in alzato. Si usava un’illuminazione ad olio: frammenti di lucerne sono stati raccolti in buon numero nello scavo. Dovevano esserci pochi mobili: i letti e qualche suppellettile. Il pavimento era costruito con materiali semplici, battuti di argilla e strati ben compatti di calce, sabbia e ghiaia, realizzati esattamente con le tecniche descritte dalle antiche fonti.

Ma cosa si produceva nella Villa marittima di Lio piccolo? Sicuramente la pesca è una delle attività della struttura: i pesi in piombo e i pesi in terracotta per le reti, la presenza di una vasca (forse un vivarium) dall’area dello scavo subacqueo, ci indicano che il pesce era una risorsa fondamentale. Le strutture però, in quella parte che immaginiamo essere il retro del complesso, presentano un imponete e solido magazzino a piattaforma ligneo, che ci permette di ipotizzare un’altra tipo di produzione: il sale. Una produzione che ben si accorda ai rinvenimenti in zona dei molti argini con anfore, che delimitavano probabilmente spazi salinatori.

A pochi metri di distanza ci sono altri ambienti, allineati con queste stanze, ma più ampi e affacciati sull’acqua di un grande canale che conduceva dal mare ad Altino. Si tratta di spazi che erano pavimentati in antico in mosaico: migliaia sono le tessere bianche e nere lasciate sul posto da chi ha letteralmente strappato per riutilizzarlo anche lo spesso strato di malta e di calce di preparazione dei suoli musivi.  La “spoliazione” definitiva della Villa è avvenuta nel tardo VI secolo-inizio VII secolo d.C., quando la struttura è stata definitivamente abbandonata e tutti i materiali edilizi sono stati recuperati per riusarli. Sono diventati mattoni nei nuovi centri altomedievali, primo fra tutti Torcello. Ma nel pieno I secolo d.C., quando la Villa è stata costruita, le stanze che si affacciavano sulla laguna dovevano essere decorate in maniera raffinata, rispettando i canoni estetici della Roma imperiale, usando vividi colori negli affreschi, elaborate decorazioni a stucco e marmi colorati. Sono gli spazi di chi controllava il lavoro dei servi, gli spazi di rappresentanza e di villeggiatura, spazi dove vengono accolti gli ospiti. Come avveniva in altre ville simili della bassa costa adriatica – che la ricerca archeologica sta proprio in questi anni portando alla luce – non è del tutto fuori luogo immaginare che le elites amassero abitare questi spazi costieri magari solo per qualche giorno, lasciando la rumorosa città, Altino, dove risiedevano in maniera stabile, per trovare un luogo di otium, proprio in riva al mare.

Si trattava probabilmente di investitori privati, che potrebbero avere acquistato spazi lagunari per produzioni di pesce e sale, o se si tratti di militari e/o servi, che gestirebbero queste proprietà demaniali per conto dell’imperatore. Ciò che è evidente dallo scavo archeologico è che queste persone a Lio Piccolo si permettevano di vivere con un certo lusso: la qualità delle decorazioni è attestata da un numero impressionante di frammenti di affresco, come quelli già raccolti più di vent’anni fa, nella parte della Villa che si conserva in acqua, sotto l’argine lagunare.

 

C’è poi il lungo e possente edificio realizzato con una tecnica unica, che quasi non ha paralleli e confronti nel resto del mondo romano: un lungo edificio ligneo, posto alle spalle della villa, che offriva spazio di stoccaggio e un’area di lavoro di grandi dimensioni. La monumentalità dei pali in legno ci lascia pensare che la costruzione sia stata dettata dalla necessità di stivare merci e prodotti di grande peso, probabilmente i sacchi di sale.  Ad attestare la produzione di sale sono poi gli argini che delimitavano le saline. Non si è mai smesso, insomma, di abitare e produrre in laguna: sono cambiati solo i siti e le modalità con cui lo sfruttamento di queste risorse deltizio/lagunari (sale e pesce) sono state al centro dell’interessi delle donne e degli uomini che l’anno abitata in secoli così lontani.

 

Lo scavo archeologico ha permesso di vedere come l’intera Villa, sia per la parte produttiva che quella residenziale, fosse stata progettata in modo integrato, rispondendo a un unico grande progetto di sfruttamento delle risorse lagunari a partire dal I secolo dC. La villa di Lio Piccolo era rivolta verso l’interno, verso l’attuale laguna, dava le spalle a imponenti dune di sabbia, forse alte anche più di 10 metri, che la proteggevano e, poco più di cento metri a oriente, separavano questo spazio produttivo dal mare e dalle onde.

 

Gli scavi archeologici che si sono appena conclusi rientrano in un più ampio progetto di ricostruzione delle forme di sfruttamento lagunare tra l’età antica e l’età contemporanea. Grazie ad una interdisciplinarità degli studi, usando dati dello scavo e I dati di carotaggi geo-ambientali, si possono ri-scrivere le vicende della costa antica che si trasformava di continuo, reinventando spazi e funzioni tra mare, delta fluviali e canali di marea. Analisi pedologiche, combinate con studio di microfossili ambientali, ci indicano le forme delle coste antiche e ci descrivono il rapporto tra acque dolci e salate. L’analisi dei pollini permette di ricostruire la vegetazione in superficie. In età del bronzo, dove il sito pare sia già frequentato, ci sono dune sabbiose che chiudono acque salmastre e possenti boschi.

 

Lio Piccolo è un progetto di archeologia pubblica e partecipata: gli archeologi di Ca’ Foscari hanno progettato insieme alla comunità di Lio Piccolo lo scavo. La cittadinanza è stata coinvolta raccogliendo informazioni, interessi e sollecitazioni utili alla comprensione collettiva del paesaggio storico. Numerosi incontri di comunità, dallo scorso inverno, hanno accompagnato gli archeologi fino allo scavo di oggi condotto tra aprile e giugno del 2024. Lo scavo nelle ultime quattro settimane è stato aperto al pubblico in maniera costante con quasi 20 appuntamenti tra aperitivi archeologici a bordo scavo e conversazioni e incontri con il pubblico.

 

“Quando mi viene chiesto qual è il reperto o l’oggetto più importante che abbiamo trovato durante gli scavi, io penso che questo “tesoro” sia in realtà la partecipazione”, dice Diego Calaon, direttore scientifico delle ricerche. “La presenza costante di 40/50 persone ad ogni evento, sfidando caldo e pioggia, ci indica che vi è un interesse reale a condividere un racconto costruito pezzo per pezzo dalla ricerca archeologica e dalla interpretazione condivisa dei cittadini. Una Citizen Science intorno alla storia del paesaggio”.

 

“Lo scavo permette di recuperare anche importanti informazioni ambientali”, racconta Daniela Cottica, co-direttrice. “In epoca romana, a differenza della fase precedente “si nota un grande sfruttamento del paesaggio boschivo che inizia ad essere usato in maniera intensiva anche per l’attività edilizia e produttiva, lasciando posto ad  uno spazio acqueo, circondato da aree di pastura e coltivazioni, tra cui vite, ulivo, e cereali. L’ambiente rimane salmastro con una vegetazione di tipo anfibio e lagunare.”

 

“La ricerca scientifica è parte integrante del progetto strategico dedicato a Lio Piccolo che questa amministrazione ha avviato e sta sviluppando con un importante investimento di quasi 7 milioni di euro. Attraverso lo studio e la ricostruzione anche degli archeologi, stiamo gettando le basi per un futuro radicato nel quale la nostra storia, grazie anche alla tecnologia e al multiverso, potrà essere conservata, valorizzata e condivisa con la nostra comunità e gli ospiti di Cavallino-Treporti – affermano Roberta Nesto e Alberto Ballarin, sindaca e assessore alla cultura e al turismo di Cavallino-Treporti -. La ricerca scientifica sugli insediamenti di epoca romana accresce il nostro patrimonio storico e si integra perfettamente nella visione di ciò che è Cavallino-Treporti. Oltre ad essere la prima spiaggia d’Italia, puntiamo a diventare un simbolo di turismo culturale, offrendo un’esperienza unica che combina la bellezza del nostro territorio con la ricchezza della nostra storia. E gli scavi della villa romana sono parte di questo percorso”.

 

“La partecipazione della comunità alle attività di uno scavo archeologico svolto in regime di concessione”, dice Sara Bini, Funzionaria incaricata per Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e laguna,  “può diventare uno strumento di tutela efficace svolta in prima persona da chi questa realtà la vive tutti i giorni, creando consapevolezza, sensibilità e quindi un naturale istinto di protezione nei confronti del proprio patrimonio culturale, non solo archeologico. Queste dinamiche virtuose, come nel caso di Cavallino Treporti, diventano indispensabili per gli uffici della Soprintendenza, i quali creano in questo modo un vivo legame col territorio”.

 

 

 

 

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