Giungono a quota quattro – già nei soli primi sei mesi dell’anno corrente – le condanne inflitte all’Italia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) per la cattiva, lenta ed inadeguata struttura giuridico – giurisdizionale sulla prevenzione, cura, istruttoria e condanna delle violenze domestiche.
L’Italia pecca nella rapidità delle indagini, nell’inconsistenza delle misure cautelari, nell’inadeguatezza della rete di prevenzione ed accudimento delle vittime, nell’istruttoria dibattimentale, nel linguaggio processuale, nell’irrogazione delle pene.
La censura proviene dal massimo organo di tutela dei Diritti Umani, colpisce l’Italia ad ampio raggio e si caratterizza per un ritmo sempre più pressante ed incalzante di condanne.
Infatti, mentre, da un lato, il numero delle vittime non cessa di crescere, dall’altro, la lentezza con la quale ci si muove per conformarsi agli standars europei richiesti nella gestione giudiziale e stragiudiziale del fenomeno, non può più essere consentita e taciuta, e forte giunge il richiamo ad un adeguamento rapido delle leggi e delle misure da adottare in punto di prevenzione e tutela.
Le vittime, anche quando all’esito di un percorso psicologico dolorosissimo, denso di paure e ripensamenti, giungono alla denuncia, lamentano tutte, indistintamente, la solitudine, l’abbandono da parte delle istituzioni, della magistratura, del comparto giustizia tutto, della rete di accudimento ed accoglienza.
Inadeguate le strutture, inadeguate le leggi, inadeguate le condanne, inadeguata la tutela della vittima medio tempore, tra la denuncia e la sentenza di condanna, e spesso anche dopo, tra un grado di giudizio e l’altro.
Pressoché inesistenti le misure di tutela preventiva, i provvedimenti cautelari, i centri di recupero per uomini maltrattanti, insufficienti le strutture di accoglienza per le vittime ed i loro figli, spesso disponibili solo “a tempo”.
Inadeguato il linguaggio ed inadeguata la sfera comunicativa con la vittima ed il contesto in cui si muove.
L’assistenza legale poi, risulta in questo frangente necessaria ed importantissima e dovrebbe essere sempre affidata a difensori grandemente specializzati nel settore, perché la trattazione delle violenze domestiche e dei maltrattamenti familiari richiede una preparazione che esula dalla sola conoscenza giuridica ma si compone di innumerevoli voci di sapere, atte ad offrire alla vittima un più ampio contesto di tutela idoneo alla corretta gestione del caso, utile a prevenire l’aggravarsi della situazione già denunciata.
L’avvocato sarà infatti chiamato ad interagire ripetutamente e ad operare in stretta collaborazione, attraverso un dialogo ininterrotto, con le Forze dell’Ordine, Magistrati e con tutti gli altri operatori, esterni al processo, che pure sono demandati all’accudimento della denunciante e dell’eventuale prole (servizi sociali, psicologi, istituti scolastici, enti di accoglienza, etc.), creando un rapporto personalizzato, caso per caso, e non generalizzato sulla base di schemi precostituiti.
Resta fondamentale un bagaglio di esperienza giudico – processuale, umana e di rete che possa fare fronte all’accudimento della vittima, trascendendo così il mero impegno processuale, per trasformarsi in un’assistenza che si svolge prima, durante e dopo il processo.
Il filone della violenza domestica nella giurisprudenza CEDU è corposo ed apparentemente inarrestabile, ma l’Italia al momento sembra perseverare nelle proprie mancanze ed omissioni.
Già nella citata sentenza del 2017 (Talpis c. Italia) la CEDU contestava il ritardo con il quale le autorità competenti, in un caso di violenza domestica, avevano adottato le misure necessarie a tutelare la vittima, ravvisando in questo ritardo, una violazione dell’art. 2 CEDU, relativo al diritto alla vita ed un’inerzia tale da rendere priva di qualsiasi effetto concreto la denuncia della violenza medesima.
La Corte ravvisava proprio nel mancato adempimento degli obblighi positivi di protezione, nel lungo periodo di inattività da parte delle Autorità prima di avviare il procedimento penale per lesioni aggravate, nonché nella successiva archiviazione del caso, una grave violazione dell’art. 3 CEDU. La Corte ravvisava altresì la violazione dell’articolo 14 della Convenzione, sotto il profilo dell’inadempimento da parte dello Stato dell’obbligo di protezione delle donne contro le violenze domestiche.
Eppure, ben cinque anni dopo, le medesime carenze si ripropongono con la stessa gravità e comportano, negli ultimi sei mesi, altre quattro pronunce di condanna contro lo Stato Italiano, tacciato ripetutamente di inerzia.
Nel caso Landi, sentenza dello scorso aprile, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia ancora una volta per la violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita) per l’inerzia delle autorità italiane nel proteggere una donna e i suoi figli dalle violenze e i maltrattamenti inflittigli ripetutamente dal compagno, che avevano condotto all’omicidio del figlio di un anno e al tentato omicidio di lei. La donna si era recata ben quattro volte alla Polizia in seguito alle violente aggressioni del compagno al fine di sporgere denunce. In tutti i casi la Polizia si era attivata correttamente. L’autorità giudiziaria, invece, dava inizio tardivamente ad un unico procedimento per violenza domestica, senza neppure emettere alcun provvedimento per la protezione della signora Landi e dei suoi figli durante l’inchiesta. L’ultima aggressione causava la morte per accoltellamento del figlio e il tentato omicidio della sig.ra Landi. Il colpevole veniva infine condannato a 20 anni di reclusione e ad un risarcimento nei confronti della sig.ra Landi e della figlia di 100.000 euro. A fronte dei fatti menzionati la ricorrente ha quindi proposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita) e dell’art. 14 CEDU letto in combinato disposto con l’art 2 CEDU (divieto di discriminazione).
Nel recentissimo caso De Giorgi, la cui sentenza è di appena poche settimane fa, il contenuto non muta.
Nè della storia, nè delle ragioni di condanna dell’Italia.
La ricorrente aveva ripetutamente denunciato l’ex marito per comportamenti violenti e persecutori, anche indicando testimoni suscettibili di confermare le proprie dichiarazioni, affermando che da tempo l’ex marito la seguiva, la minacciava, controllava il suo telefono, minacciava di suicidarsi e di uccidere l’intera famiglia. Il 20 novembre 2015, l’ex marito aveva poi aggredito fisicamente la ricorrente, minacciandola di morte e percuotendola; alla polizia egli aveva poi persino confessato di aver picchiato la ricorrente e di averle preso il cellulare. A seguito della prima denuncia, il Pubblico Ministero aveva chiesto ai Carabinieri di effettuare un’inchiesta sulla coppia, che il 23 novembre 2015 inviavano un rapporto aggiornato sulla situazione della ricorrente, riportando l’episodio di violenza del 20 novembre e chiedendo all’Autorità Giudiziaria di valutare l’adozione di una misura di protezione per la donna, allontanando il marito dal domicilio familiare. Nuove denunce venivano sporte poi dalla ricorrente tra dicembre 2015 e gennaio 2016, laddove la De Giorgi affermava che l’ex marito si era introdotto nella casa familiare, aveva installato in casa apparati al fine di ascoltare le sue conversazioni e, nell’ultima occasione, si era fatto trovare in casa con i bambini quando la donna era rientrata.
Ebbene, si dovrà però attendere il 2020 perché il PM eserciti l’azione penale, con fissazione di prima udienza solamente nell’aprile 2021, mentre a tutt’oggi, sulle denunce del 2016 non si è avuto riscontro alcuno.
L’articolo 3 della Convenzione impone agli Stati l’obbligo di svolgere un’indagine efficace su tutti gli atti di violenza domestica; per essere efficace, l’indagine deve essere tempestiva e approfondita, il che richiede un rapido esame del caso.
La Corte con la recente pronuncia ha ribadito, ancora una volta, che le lungaggini delle indagini rischiano non solo di comprometterne l’esito delle stesse, ma anche che l’eccessivo decorso del tempo compromette di per sè l’assicurazione delle prove; l’apparenza di una mancanza di diligenza in capo all’autorità inquirente – afferma la Corte – getta un’ombra sull’impegno profuso nella conduzione delle indagini, perpetuando la sofferenza dei denuncianti.
La tutela offerta dal diritto interno, oltre ad esistere in teoria, deve anche funzionare efficacemente nella pratica. Il principio di effettività implica che le autorità giudiziarie nazionali non lascino impunite le sofferenze fisiche o psicologiche inflitte.
Già con il caso Talpis, la cui sentenza è stata emessa nell’ormai lontano 2017, risuonò netto il richiamo ad una riforma e ad una specializzazione, su larga scala, dall’Avvocatura alla Magistratura, nella gestione del fenomeno della violenza sulle donne. Ma tutte le sentenze successive, (Landi, De Giorgi, Rumor, etc.) non fanno che inasprire il divario tra la richiesta di un paese preparato alla prevenzione e gestione del fenomeno, ed un Paese le cui maglie sociali e di giustizia risultano troppo larghe per scongiurare che altre vite vengano perdute e sacrificate nell’attesa di una tutela adeguata.
L’Italia, il Bel Paese.
Avv. Cettina Marcellino