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Una “Picciridda” violata nella Favignana degli anni ‘60

Minimalista, terragno, pervaso da un senso di morte, impastata di violenza morale e fisica contro le donne, alla quale si oppone – chiusa nel suo orgoglioso mutismo fino alla dolorosa confessione, ma della quale è anch’ella portatrice – la “reggitrice” (spregevolmente indicata come “la generala”) l’inflessibile Maria – nonna di Lucia, la “picciridda” protagonista del film – alla quale è affidato il compito di accudire la piccola nipote, perché il resto della famiglia è stato costretto ad emigrare in Francia in cerca di lavoro. Maria è addetta anche alla “vestizione” dei morti, una ritualità antica a dimostrazione del suo ruolo di conservatrice d’una tradizione secolare.
È una donna forte, rude, ma non riesce ad evitare che quasi tra le mura domestica si ripeta il dramma di una violenza scatenata dalla bestialità dell’uomo, una tragedia antica, arcaica, per secoli ripetutasi ad libitum. Non gli amori “pattiani”, incestuosi, consumati però nella reciprocità di un sentimento “proibito”, bensì quelli generati dall’assurdo convincimento maschilista dell’inferiorità della donna, considerata remissivo oggetto di piacere, a cui imporre con la forza una presunta superiorità derivante da secoli di dolorose sottomissioni e costrizioni del “sesso debole”.

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E in questo contesto ora l’asperità ora la dolcezza del paesaggio dell’isola di Favignana fa da pendant al subbuglio dei sentimenti umani, entrando nel plot dell’amara e angosciosa vicenda con un appropriato uso psicologico dell’ambiente, fotografato nella sua selvaggia bellezza tra scorci inediti e totali abbaglianti. Un esordio scioccante questo del siciliano Paolo Licata con il suo “Picciridda-Con i piedi nella sabbia” (2019, passato ora nelle sale a causa del lockdown), tratto dal romanzo omonimo di Catena Fiorello, presentato lo scorso anno anno al Taormina Film Fest, recitazione secca, asciutta, dell’autoritaria nonna Maria, interpretata da una indovinatissima Lucia Sardo, la cui ruvida intransigenza (dietro cui nasconde il dramma inenarrabile vissuto nel passato) ha letteralmente incantato il regista hollywoodiano Oliver Stone (invitato lo scorso anno al Festival taorminese), che non ha esitato a paragonare l’interpretazione della Sardo ad alcuni classici del cinema.

Da questa storia corale di donne (c’è anche la consolatoria amicizia di Lucia con una coetanea, il rapporto con una cugina segretamente innamorata di un uomo sposato…) ne emerge un sud aggrondato, chiuso, violento, cruento dove ancora prevale il senso della “giustizia” personale e da dove non troppo sotto traccia affiora il sempiterno strazio dell’emigrazione, fonte di storici mali del sud. Il sud visto come terra ostile, avversa, da cui per affrancarsi bisogna necessariamente fuggire per raggiungere quell’altrove dove finalmente sia possibile affermare la propria personalità. Una fuga alla fine appannaggio anche di Lucia, la “picciridda” della storia che solo dopo molti anni tornerà momentaneamente in una luminosa e solare Favignana, ormai meta di turisti e forse finalmente mutata, per affondare di nuovo i piedi in quella rena sottile che accarezza dolcemente, ma nella quale inevitabilmente si affonda.
Regia essenziale e sceneggiatura (Licata-Fiorello-Chiti) altrettanto lineare sorretta dalla buona la recitazione dell’intero cast, oltre Lucia Sardo (Maria), Marta Castiglia (Lucia), Tania Bambaci, Katia Greco, Ileana Rigano (scomparsa qualche settimana fa, qui alla sua ultima interpretazione), Federica Sarno, Maurizio Nicolosi, Loredana Marino, Claudio Collovà.

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