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Venus Malus ovvero l’avvelenatrice di Trastevere: tra Palermo e Roma il potere delle donne nel 1600

Una nuova serie a cura dello scrittore storico e ricercatore Roberto Disma e Susanna Basile psicologa e sessuologa clinica ispirata al libro di Disma "Venus Malus" una vicenda realmente accaduta

Una nuova serie a cura dello scrittore storico e ricercatore Roberto Disma e Susanna Basile psicologa e sessuologa clinica ispirata al libro di Disma “Venus Malus” Graphofeel Edizioni vicenda realmente accaduta nella seconda metà del 1600. Il testo è frutto di un’attenta ricerca storica durata quattro anni e rientra nella categoria del romanzo storico: sarà l’occasione per parlare delle donne nel corso dei secoli donne che hanno avuto un ruolo fondamentale all’interno della società di appartenenza. Ma ecco la sintesi della prima puntata.

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Se l’uomo uccide con la forza usando mani, coltelli e bastoni, la donna uccide con astuzia usando la lingua, il veleno e le sue derivazioni. Veleno (o “veneno” come era voce comune all’epoca di Dante) viene direttamente dal latino venènum, in connessione con Venus, Venere, dea della bellezza e dell’amore. Il venènum in origine era quindi “ogni materia specialmente liquida, capace per la sua forza penetrante di mutare la proprietà naturale di una cosa”. Il veleno da sempre è stata l’arma preferita dalle donne perché procura una morte invisibile, atroce e molte volte senza lasciare tracce. In realtà il veleno è stato largamente usato anche dagli uomini, che ne hanno fatto il mezzo più adatto per sviare i sospetti e simulare una morte naturale. Ma l’acqua Tofana era un veleno tutto al femminile.

Era nota anche come Manna di San Nicola perché contenuta in una boccetta decorata con l’immagine di San Nicola, un espediente per non destare sospetti sul reale contenuto della bottiglietta, che ha tutta una storia sua degna di grande rispetto. L’acqua Tofana diffusa in tutta la penisola era nota anche come acqua perugina o acqua di Napoli. Senza chiaramente essere favorevoli a tale attività, pensiamo alle migliaia di donne giovani ed indifese che venivano maritate a uomini anziani, violenti, per lo più ricchi per sistemare le famiglie di origine, insomma vendute letteralmente come oggetti sessuali e fabbriche di eredi. Per questo in qualche modo per quanto assassina e venditrice di morte, la nostra Giulia Tofana, diventa “una salvatrice” e un’eroina dell’epoca” di tutte le donne infelici malmaritate che dovevano subire violenze spesso fino alla morte, che rimaneva impunita. Giulia Tofana era una cortigiana originaria di Palermo che nel 1640 che elaborò la ricetta della pozione mortale. Incolore, insapore e inodore, era un’arma micidiale con cui eliminare una persona senza destare alcun sospetto, anche perché l’effetto era ritardato di giorni e nessuno riusciva a ricondurre la morte ad altro che un attacco di cuore. Una mistura a base di arsenico, piombo e probabilmente belladonna (sono ignote le esatte dosi di ciascun ingrediente) mischiati in acqua bollente e che uccideva senza lasciare traccia. Fondamentale era versarne poche gocce al giorno per provocare con il tempo un avvelenamento tale da portare ad una morte apparentemente naturale perché priva di sintomi. Leggendo gli scritti del medico di Carlo VI d’Austria, l’anidride arseniosa nell’acqua creava un ambiente acido consentendo lo scioglimento del piombo e dell’antimonio, creando una soluzione dotata di elevata tossicità. Durante il periodo palermitano Giulia, già in odore di inquisizione a causa di una moglie che non aveva seguito le istruzioni di avvelenamento quotidiano e quindi di un marito malauguratamente sopravvissuto, dovette trasferirsi a Roma.

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