CATANIA – In questo periodo di “lockdown” Francesco Cusa ha scritto molte poesie. Alcune di queste l’eclettico artista ha scelto di farle leggere ad amiche e amici, artisti e pregevoli professionisti della parola. In sottofondo, la base flebile e distante della batteria dello stesso artista.
Nasce così questo esperimento che Francesco Cusa ha deciso di chiamare “LOCKDOWN MON AMOUR”.
L’autore commentando l’evento dichiara: «Ringrazio di cuore tutte le amiche e gli amici che si sono prestati a questo esperimento. Mi hanno fatto un bel regalo. Sotto trovate anche i testi, che saranno certamente pubblicati in un libro futuro».
Rosalba Bentivoglio legge “MONOTONIE D’APRILE”.
Alessandro Borsonee legge “ESSERE UN GIULLARE”.
Giuseppe Carbone legge “CONFIDENZE”.
Nazim Comunale legge “GLI AMORI E I MORTI”.
Sal Costa legge “GLI AMORI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS”.
Massimo Cracco legge “I LIBRI”.
Carmelo Di Stefano legge “NEI TUOI OCCHI”.
Massimo Salvatore Fazio legge “L’INERPICARSI DEL SANTO”.
Alice Ferlito legge “ECLISSI SERALE”.
Francesco Gennaro legge “DOMESTICARSI”.
Superdani Gozzo legge “POMERIGGIO”.
Fabio Vito Lacertosa legge “TEMPO FERMO”.
Annalisa Pascai Saiu legge “ERINNI”.
Angela Tinè legge “L’ISOLAMENTO”.
Pier Marco Turchetti legge “A FEBBRAIO”.
Cristina Zavalloni legge “BOLOGNA”.
Francesco Cusa – drums.
Qui trovate i testi che saranno in futuro pubblicati.
MONOTONIE D’APRILE�
Eppure provo una grande malinconia
per quelle sterpaglie sotto casa.
Non ci avevo fatto caso prima
adesso è un eterno empatizzare
con le ragioni delle piante.
Ciò che muta a velocità contraddittorie
è la stasi del paesaggio
che pare acquerello tremolante
ritratto di un demiurgo cagionevole.
Ma non son qui a raccontare il vano
di piante e luoghi del mirare
perché la mia mano già accarezza
col farsi del mondo
i teneri colori della sera
(ancora quell’urgenza delle prime volte).
Così è questa girandola spezzata
gira bene, gira male
e fa un po’ di tenerezza
a giovani e vecchi appisolati
sull’orlo dell’enormità del crepuscolo.
—
ESSERE UN GIULLARE
Fui tutto ghigni pel mio Re
Saltimbanco con l’artrosi
Genuflesso ma mai prono
Da sciancato disegnai coreografie
sbilenche.
Nella corte le gran dame
Applaudivano e si sganasciavano
Armeggiando col ventaglio
Di piccoli vortici facendo ghirlanda.
Da morto fui gettato nella fossa
Fuori dalle mura del castello
Nelle notti tempestose fo’ da spettro
Mai risate sì chiassose ebbi in vita.
(Fui dannato dalla sorte
A far ridere la corte
Nella vita e nella morte
Sempre in faccia presi torte).
—
CONFIDENZE
Occorre esser cauti anche nel donare
l’Altro è un alambicco che trasforma
l’acqua di sorgente in liquore venefico.
Oh preziose coppe di cristallo
da offrire nei lugubri raduni di settore
ove si pasteggia con carni scorticate
nel vortice della celebrazione delatoria!
Teatri di provincia, sale prove sgangherate
bar corrotti dalla violenza della sigaretta
questi i luoghi deputati alla canea tribale
dagli àscari pedine del presente
nel buio di lor felpe intrise di macchie.
—
GLI AMORI E I MORTI
Tenemmo ferma e distante la fine
in quello smorir di pomeriggio
le nubi dipinte al cielo fermo qual
vezzo dell’estro di un dio preziosista.
Eppure eravamo noi
ebbri di furore salino
monadi estive disciolte nella canicola
ustionati dall’asfalto del Lido Arcobaleno.
Più tardi scoprimmo la certezza dell’angoscia
una volta cancellate dal firmamento
dalle nostre memorie
le stelle catturate dai documentari della Rai.
Con i i primi venti dell’autunno
abbracciammo il freddo delle case vuote
poi con strani e ancestrali riti
officiammo nella notte del braciere
alla triste conta dei morti.
Nelle stanze la luce è ancora accesa.
In cucina la tenebra del mezzogiorno.
—
L’AMORE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
C’è come un senso di pace
In questa ritirata di ardori
Che conserva i tratti gentili
Del volto d’una vecchina morente.
Fuori la porpora d’un canto messianico
Intonato da muse invisibili
Narra d’una storia poco nota
Ai terrestri affetti dal salutismo.
Come un drappo di velluto al vento
Permea il pigmento della vita
E negli spazi finalmente liberi
L’aria che da virulenta si fa pura
Muta il rantolo in respiro
E più non logora il presente.
—
I LIBRI
Prima intonsi e profumati
si consumano fra le pieghe
del silenzio dei giorni
divorati dai regali Mangiacarte
E’ la sprezzante memoria dei papiri
che persiste nel ghiaccio delle pagine
dei monoliti di cellulosa
che attendono di farsi canto e musica
col frusciar di loro petali.
Carta e polvere dietro gli scaffali
delle case morte
in cielo sfolgorano
ancora le stelle e fanno
a gara per dimenticarsi.
Solo rimane sveglio
a far da sentinella
Jack London coi suoi occhi spiritati.
—
NEI TUOI OCCHI
Ho rivisto l’estate accartocciarsi
farsi piccina come l’autunno
e poi diventare un orso di ghiaccio
vagante per un Sud privo di poli.
La chiamate ancora primavera
dalle vostre parti
questa carta spaiata
e priva di mazzo?
—
L’INERPICARSI DEL SANTO
Questo inverno è tutto sole
Sole che non risparmia niente
Asciutto come la scheggia di selce
Sulla collina brulla e spoglia.
Violenta è la quiete del diurno
Nella vana attesa d’una febbrile scalata.
—
ECLISSI SERALE
L’amarezza della vita è un gioiello
Che non si può contemplare
Come le curve d’una dea puntiforme
O il sorriso di una plafoniera.
Forse distrattamente, nel domani
Col collo torto verso la sera
Potrei scorgere l’idillio crepuscolare
Nella filiera di panni stesi.
E allora riderei di gusto
Di quello sbatacchiar di venti
Come l’ultimo dei gabbiani
Che plana sul nero dei mortali.
Domani, col collo torto verso la sera
Rivedrò l’inerte con le sue canzoni
E il bagliore d’una lama senza braccio
Che fenderà l’anima del mattino futuro.
—
DOMESTICARSI
Nelle stanze il sole tortura i mobili
La mestizia dell’inerte.
Fuori, il cielo par dipinto da uno scolaro
L’assurdo del volo dei gabbiani.
Abitato dai detersivi, sbrigo faccende di casa
Il latrato dei cani nella notte.
—
POMERIGGIO
Lenta di sua traiettoria, da un balcone all’altro
l’ombra del compasso d’un cieco demiurgo
segna la cadenza del giorno.
Vana speranza è quella di dare un senso
alla pigra meccanica dello Spirito.
Giù nel cortile si disegna la logica
d’una curva di gatto.
—
TEMPO FERMO
L’abisso della notte senza vento
Inghiotte gli abitanti del mondo.
Questi finiscono nelle spire di Morfeo
Dopo esser precipitati nel Sonno.
Quando si risvegliano fanno facce da carpa
E poi si riaddormentano, perché non ci sta
Niente da fare.
Essendo ontologicamente ovunque
Il trauma si annulla.
Venne l’era dell’ozio e dei dormienti.
Il pianeta è un brulicar di canti
Un inferno verde molto sensuale
Che ha per musa un coccodrillo.
—
ERINNI
Stammi distante.
La tua prossimità mi uccide.
Lontano è il mio prossimo
Contigua la sua ombra.
Stammi distante.
Perché uccido con il verbo
E rendo sterile la stirpe
Come l’ago senza filo d’un sarto.
Guarda le mie ali da demone.
Sono grandi, nere e possenti.
Nell’angustia delle profezia domestica
Frantumato è ogni specchio
Nuda è la vibrazione dell’anima.
Prossimo è il tempo
– L’avvicendarsi d’istanti –
In cui rimpiangerai d’avermi cacciata.
—
L’ISOLAMENTO
Feci del mio balcone belvedere
dei giochi d’ombra sofisticate clessidre
vessilli e stemmi dei panni stesi.�
Col sole del meriggio
colorai le mie fragole
dal crepuscolo della sera
trassi un pugnale di diamante.�
Affondai la lama sul rimpianto
di alcune stoviglie da lavare
dalla forza centrifuga della lavatrice
trassi nuove regole del cosmo.
Contemplai gli abissi del lavabo
l’inerte bianco melvilliano
in una vertigine di ceramica
che parve inghiottire la prospettiva.
Vissi il tempo del domestico
con levità da libellula
rimirando il soave declino
dalle pure vette del mio lampadario.
—
A FEBBRAIO
Il sole prende una strana traiettoria
Vira sulle tazze inerti della cucina
Che paiono per pochi istanti gioire
Di quel tenue raggio di luce
Che colora ma non riscalda
Le cose stanche del vivere tuo.
Ma anche la presenza di Dio passa
Come il respiro gelido di una tramontana assolata
Sul pigmento vibrante di piatti e bicchieri
Senza nulla posare, nulla sfiorare
Neanche il brivido d’un tentennamento
Solo uno svaporare di ricordi.
—
BOLOGNA
Questo mio esserci, Bologna
si misura in polveri sottili di memoria
in distanze fatte di frammenti di ricordo.
Qui, dalle furenti coste siciliane
accarezzo i luoghi della mia tarda adolescenza.
Anima barricadiera, fuoco delle università
furore pianeggiante, dannazione nel limbo di nebbie.
Non altro ero, non altro eravamo.
Più tardi mi accorgerò del giallo ocra dei tuoi pomeriggi
dei tuoi portici escheriani
del notturno ronzare delle ruote della mia bici.
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