Patrizia D’Antone può apparire un’artista tranquilla e rilassata pur perseguendo il suo obiettivo di rendere felici e uniche le sue creazioni. Con grande impegno e tenacia è una persona responsabile in famiglia e con gli amici. Ma pretende altrettanto da chi l’accompagna nel suo percorso di vita. Il suo “onorevole karma”, ovvero la sua parte “ombra”, è l’impazienza, in quanto avrebbe probabilmente agito meglio e più velocemente di chi le sta accanto. Ma fatto sta che di “karma” si tratta e ognuno deve “amabilmente” ed inevitabilmente adottare il Suo. E lei ha sagacemente adottato quello delle “sue donne” che lei riadorna dello “charme celeste” di cui dovrebbero essere rivestite.
Chi è Patrizia D’Antone?
Sono nata a Catania, sopra una nuvola di gelsomini, in una notte di Giugno. I miei vivevano in un romantico bilocale con i tetti bassi nell’attico di un palazzetto Liberty che si affacciava su un giardinetto fresco ed è stato lì che ho visto per la prima volta la luce. Al piano terrano del palazzetto viveva una numerosissima famiglia: dieci figli di cui due maschi e otto femmine che sgomitavano per tenermi a turno in braccio, coccolarmi e cullarmi, con grande sollievo di mia madre. Mi cantavano nenie, mi raccontavano storie e forse devo anche a loro la mia fervida fantasia.
Patrizia D’Antone riesce a descrivere la sua infanzia in maniera narrativa e con un grande “ritmo musicale” un testo che pubblicherà in un suo prossimo libro “Edilizia dell’immaginario”. Per noi un estratto:
“Non mi annoiavo, mai. Mi buttavo a pancia per aria sul vialetto di casa in un punto dove sopra di me vedevo solo cielo e mi perdevo per ore nella vertigine dell’azzurro. È su quella tela che devo aver progettato il mio futuro, in quell’immenso spazio libero dove puoi dipingere ciò che vuoi. Scivolavo cavalcioni sul corrimano cilindrico della scala esterna e una volta arrivata giù guardavo attraverso il foro perché lontano lontano, mi aspettava il puntino luminoso. Doveva essere un forellino sfuggito alla saldatura ma io credevo fosse la stella della fortuna. Intorno alla casa sciara e solo sciara nera, tagliente, severa che graffiava senza pietà le scarpe e le ginocchia ma popolata di una quantità inverosimile di grilli. Mi documentai sulla loro vita in un volume dell’enciclopedia “Conoscere” e presi a sentirmi un Grillo. Con la fantasia mi incuneavo negli anfratti e immaginavo un tavolo, un lanternino e un fuoco per scaldarmi mentre suonavo il violino. Le cicale frinivano sugli eucalipti che bordavano la strada e nei caldi pomeriggi estivi lessi “la cicala e la formica” (la favola di Esopo). Mi schierai dalla parte della formica e mi procurai una spiga di grano perché i chicchi tra le dita mi facevano sentire ricca. Mangiavo di nascosto semi di avena selvatica e boccioli di rosa canina, mi piaceva l’aspro che lasciavano in bocca. La scala ripida che portava alla soffitta polverosa mi condusse a una vecchia lavatrice a manovella…oh cavolo quanto avevo sognato (chissà per quale misterioso motivo) di girare l’urna delle estrazioni del lotto…! Mi sentii come Cenerentola davanti all’inaspettato vestito per la festa. E il pane col burro e la marmellata a merenda e la leccata della ciotola con i resti dell’impasto per la torta e mia nonna che tutti gli anni mi faceva pervenire una bellissima cartolina d’auguri per il mio compleanno nonostante vivesse ad Augusta e arrivasse puntualmente a casa mia prima della cartolina…”
Come e quando hai iniziato essere un’artista?
Credo che artisti si nasca ma spesso i cliché culturali ci incastrano in qualcosa di “altro”. Era un periodo difficile, un passaggio della mia vita, non avevo soldi e si ruppe la lavatrice. Chiesi a mio padre che era un genio, di trovare il guasto e mentre lui armeggiava nelle viscere dell’elettrodomestico, io spellai un filo elettrico e il rame, chiacchierando in attesa di verdetto, lo giravo tra le dita foggiandolo. Ne venne fuori una forma così bella che decisi di farci un orecchino. Fu il primo di una lunghissima serie di gioielli.
Tu hai tre figli che hanno età molto distanziate che hai cresciuto, mi hai raccontato, come se fossero tre figli “unici”. Cosa intendi con questo termine?
Avevo paura di togliere qualcosa al mio primogenito, volevo lasciarlo solo per offrirgli tutte le mie attenzioni, temevo di fargli un torto prima di realizzare che l’amore di una madre non si divide ma si moltiplica. Cedetti all’incertezza quando lui, a cinque anni, mi disse che la cosa che più desiderava al mondo era un “sorellino”. Così arrivò Jacopo. La terza gravidanza mi colse di sorpresa a quarant’anni quando il maggiore dei miei figli ne aveva quindici e il secondo sette. Immagina… Tre adolescenze in tempi diversi, non hai ancora finito con uno che arrivano le “turbe” dell’altro… ma in definitiva sono una madre felice, i miei figli sono tutti e tre artisti che hanno realizzato il loro sogno.
I nati del 17 giugno “Sono ottimi progettisti disegnatori e viaggiatori dal momento che hanno quasi sempre un senso dell’orientamento innato e una buona comprensione delle realtà spaziali. In rari casi sono talmente all’avanguardia sotto questo aspetto, i loro metodi sono talmente unici, che gli altri li accusano di essere pazzi perché non seguono la via tradizionale, di solito, poi la logica che li guida diviene chiara a tutti una volta che i loro metodi si sono dimostrati esatti”. Quanto la famiglia di origine può decidere sul tuo destino?
Molto, in senso edificante o distruttivo. Ho la certezza che sia necessario assecondare e sostenere i desideri dei propri figli, incoraggiandoli a inseguire i loro sogni per quanto irraggiungibili possano sembrare e a non piegarsi a scelte di comodo o di accomodo. Loro e i loro figli e i figli di questi figli poi, sono una promessa di infinito. Dovremmo ricordarlo. Sempre.
Come si fa a capire quello che si vuole fare nella vita?
Lo sappiamo, da sempre. É inscritto nel DNA ma abbiamo perso l’istinto, il “vezzo” di ascoltarci. Da bambina dipingevo, cucivo, scrivevo piccoli racconti e poesiole, mi fabbricavo scarpette da ballo e mi mettevo sulle punte facendo esercizio appoggiata al corrimano della scala. Sognavo ma mi sembrava vero, di essere un’artista… Desideravo fare gli studi artistici ma i miei avevano il terrore che nelle scuole d’arte circolassero le droghe ahimè… (al tempo era un’opinione piuttosto comune) e così mi piegai alla scienza, a caso insomma… Ho studiato chimica industriale che mi è tornata utile solo per i dosaggi degli ingredienti da usare nella produzione casalinga di prodotti naturali per la cura del corpo e della casa.
Esiste un’età per cui tutto “è già detto o già fatto” o possiamo essere quello che vogliamo senza limiti anagrafici?
Ogni giorno siamo persone nuove quindi di vivere e sperimentare non si finisce mai.
Leggo dai nati il 17 giugno: “Qualche volta non riescono a finire ciò che hanno iniziato perché si interessano alla fase inziale del progetto per sentirsi continuamente ringiovaniti da nuovi stimoli e per mantenersi fedeli a ciò che hanno creato, come fonte di ispirazione, “estremamente felici” di non essere entrati nella meccanica del progetto”. Come i tuoi “gioielli” che sono opere uniche perché “ogni donna è unica”: come fai a predire in “ogni” donna un’ opera “diversa”?
Io non predìco: Io produco, secondo l’ispirazione del momento, secondo la vibrazione o frequenza o ancora pensiero di quel particolare momento che probabilmente entra in sintonia con quello della donna che sceglierà. Io richiamo a volte fantasie collettive femminili tra storia, leggende, romanzi e poesia: mi “sintonizzo” su di loro nell’interpretare il femminile nei secoli…così mi è successo per Bradamante donna guerriera dell’Orlando Furioso…ma questa è un’altra storia…
Le donne sono state “idolatrate” tramite la pittura, la scultura, la poesia, la letteratura, all’abbigliamento e di recente sono rimasta strabiliata al museo British Tate di Londra dove ho visto un’infinita esposizione di gioielli dall’antichità ai giorni nostri: quanto i tuoi gioielli vista la “simbologia” a cui affianchi ogni tua “opera” possono servire per la “realizzazione” di una donna?
I miei gioielli si ispirano spesso ai modelli dell’antichità e della tradizione, una sorta di revival archeologico in una “shape” rivisitata secondo il mio stile. Il gioiello è per antonomasia simbolo di vanità, sana frivolezza comune a tutti popoli, antichi e moderni, ma non solo… ha anche un significato simbolico ed esoterico…ma questa è ancora un’altra storia!
Ti invito a una sfida e a un immaginifico duello… donna mistero senza fine bello è il finale della poesia “Signorina Felicita” di Gozzano: “E tentai di sollevarti il viso inutilmente. Poi, colto un fuscello, ti vellicai l’orecchio, il collo snello…. Già tutta luminosa nel sorriso ti sollevasti vinta d’improvviso, trillando un trillo gaio di fringuello. Donna: mistero senza fine bello!”
Hai proprio azzeccato il testo! La tendenza gozzaniana all’ironia mi rappresenta molto. Felicita è una donna non bella ma buona, tenera e semplice… Scambia la corona di alloro su un ritratto di Torquato Tasso per un ramo di ciliege, stira camicie, vive un banale quotidiano: Sei quasi brutta, priva di lusinga, nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime trecciuole, ti fanno un tipo di beltà fiamminga…E rivedo la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere, e il volto quadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi leggiere e gli occhi fermi, l’iridi sincere e azzurre d’un azzurro di stoviglia… Per Felicita immagino un pendente minimal che ciondola allegramente nel fremito del solletico…