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Alessandro De Filippo e la paura seriale

CATANIA –  In occasione della decima edizione di Corti in Cortile, il Festival Internazionale del Cortometraggio al Palazzo della Cultura di Catania, uno spazio veramente interessante dedicato alla paura ha fatto da cornice all’evento principale. Un workshop coordinato dal Prof. Davide Bennato il quale insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, magistralmente tenuto dal Dott. Alessandro De Filippo in forza allo stesso Dipartimento. Temi interessanti, sopratutto il tema della paura concreta, con un profondo significato sociologico più che cinematografico, quella paura che oggi pervade ed invade le case del popolo “civilizzato”.  Ma chi è il Dott. Alessandro De Filippo.

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Alessandro De Filippo insegna Televisione e linguaggi multimediali presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Catania. I suoi argomenti di ricerca sono concentrati soprattutto sul documentario siciliano, dal Secondo Dopoguerra agli anni Settanta (Ugo Saitta, Francesco Alliata e Vittorio De Seta), e sulla relazione tra la paura per il terrorismo islamico, dopo l’11 settembre, e l’immaginario cinematografico (Idioteque, 2011) e televisivo (Apocalypse When?, 2013). Si è dedicato anche agli archivi del cinema d’impresa, con l’ultimo libro Per una speranza affamata. Il sogno industriale in Sicilia nei documentari dell’Eni (2016). Nel 2017, grazie all’accordo tra Eduopen e quindici atenei italiani, ha partecipato al progetto M.O.O.Cs, realizzando un corso di 24 lezioni di Tecnica della rappresentazione audiovisiva. Dal 1996 fa parte del gruppo Cane Capovolto; insieme a Enrico Aresu e Alessandro Aiello, compie una ricerca radicale sui media dello Spettacolo. Dal 2005 è pubblicista, iscritto all’Ordine dei giornalisti di Sicilia. Dal 2013 fa parte del Comitato Editoriale di Zammù TV, la WebTv dell’Ateneo di Catania. Ha raccolto un po’ delle sue “cose” sparse sul sito www.imide.it.

Alcune domande allora mi sono venute in mente, durante l’esposizione e la chiarificazione del workshop e il Dott. De Filippo, è stato lieto di rispondere.

D – Un senso di alterità e di paura sono sempre presenti, ha detto lei durante il workshop “il nemico è in mezzo a noi”, cosa è mutato tra i walking dead (morti che camminano) e i bikers (morsicatori) di oggi e la “Notte dei morti viventi” di G.A. Romero?

R – Romero faceva, a suo modo, un cinema consapevolmente politico. I suoi zombie erano i nuovi schiavi della Società dei consumi. Siamo nel 1968 e in quegli anni i Mall negli Stati Uniti diventavano un punto di riferimento per trascorrere il tempo libero. I cittadini si erano trasformati in spettatori televisivi e consumatori, completamente succubi del mercato. Non è un caso che lo stesso Romero ambienti il suo Dawn od the Dead in un Centro Commerciale, proprio a voler sottolineare come questa mancanza di senso critico nei cittadini li avesse ridotti a esseri senza ideali e senza sentimenti. Quindi il sangue copiosamente versato nella saga zombie di Romero è comunque il tentativo di costruire una giocosa e urlata denuncia sociale e politica.
The Walking Dead è invece una serie che pone problemi di identità culturale e di “minacce” interculturali. C’è un gruppo di sopravvissuti che diventa una sorta di famiglia allargata: chiunque si contrapponga a loro assume le caratteristiche di nemico. Una morale semplificata, un approccio manicheista che forse anticipa l’America First di Donald Trump.
Già a partire dalla seconda stagione, la fattoria di Herschel, gli zombie fanno da sfondo rispetto ai diversi gruppi di sopravvissuti che si contrappongono per motivi religiosi (Herschel) o per motivi politici (il Governatore e Negan). C’è una involontaria riflessione sull’autoritarismo politico. Trump era nell’aria, insomma, in pieno mandato Obama.

D – Ha parlato di paura strumentalizzata e di “ri-semantizzazione” all’interno di meccanismi sociali più che mai attuali, che vengono enfatizzati all’interno della narrazione cinematografica. Paura di ciò che sostanzialmente non si conosce o che comunque non si conosce bene e la strumentalizzazione di questa paura. Ma sulla la “ri-semantizzazione”?

R – La risemantizzazione è quella che fanno i media, quando propongono in maniera ridondante le stesse sequenze audiovisive, trasformandole in formule, modelli narrativi, in immaginario, infine in narrazione ideologica. Pensiamo alla retorica dell’emergenza e leggiamo i numeri. Non c’è nessuna emergenza. C’è un flusso che sarebbe gestibile, se solo ci mettessimo a lavorare in termini di programmazione. E invece si improvvisa e si arriva all’emergenza umanitaria oppure si disegna una inesistente emergenza invasione.
Se invece avessimo tutti gli anticorpi per analizzare razionalmente le informazioni televisive, i film, le serie tv, saremmo in grado di negoziare i significati e interpretare la realtà che è rappresentata in ogni tipo di raffigurazione audiovisiva. La differenza tra saper leggere e capire ciò che si sta leggendo è proprio questa: occorre dotarsi di strumenti per leggere e interpretare i comunicati audiovisivi.

D – La visione distopica cambia nel cinema, dalla fantascienza all’horror oggi si presentano nuove tracce narrative. “Dalla terra alla luna” di Verne a “La Guerra dei Mondi” di Wells, “1984” di Orwell a “Fahrenheit 451” di Bradbury, fino a “L’Invasione degli Ultracorpi” di Finney e il “Cacciatore di androidi” di Dick che ispira Ridley Scott a dirigere Blade runner”. Perché questa necessità strisciante di una totalità negativa?

R – La distopia, come l’utopia, è in grado di descriverci. Procede per assurdo. Cosa succederebbe se arrivasse una guerra atomica? The day after raccontava questo. Cosa succederebbe se un’epidemia facesse morire l’85% della popolazione mondiale? Survivors, serie meravigliosa degli anni 1975-1977 della BBC, esplora un mondo cinico e violento post-catastrofe. L’utopia propone delle società perfette possibili, ma irreali. La distopia lavora ribaltando la raffigurazione nel suo opposto negativo. C’è un film, di cui si è occupato a lungo il filosofo e psicanalista lacaniano Slavoj Zizek, che si intitola Children of Men (2006). Racconta in un mondo ormai sterile in cui non nascono più bambini. Dopo 50 anni la tenue finestra della fertilità femminile avrebbe inesorabilmente decretato l’estinzione dell’umanità. In quel mondo ormai in ginocchio, gli uomini si ribellano con atti di vandalismo contro le opere d’arte, perché non possono accettare che l’arte sopravviva all’umanità. Credo che questa distopia ci dica tanto della fragilità della nostra civiltà occidentale, basata su un’idea effimera di successo, di carriera, di Spettacolo – così come lo intendeva Guy Debord – di separazione su base culturale e perfino razziale, come ai tempi del nazifascismo. Non è solo un film, ma è lo specchio deformante che mette in luce i nostri potenziali difetti politici, le fragilità culturali che contraddistinguono la nostra società.

D – Sempre nel suo workshop ha parlato di visioni diverse, quindi di orizzonti diversi che vengono alla luce dalla lettura non solo del cinema “mainstream” ma anche delle serie televisive. Questa visione cambia a seconda degli occhi che guardano, quindi l’orizzonte è stereotipato dalla cultura derivante o preminente e ancora, dominante?

R – Non c’è un’unica regìa, da parte dei media e del mercato che li regola. Non c’è un complotto, insomma. C’è un pensiero dominante, certo, ma non ancora un pensiero unico. Il problema non sono i film commerciali, Hollywood o Netflix, ma la nostra capacità di spettatori di negoziare i significati.
La battaglia culturale si combatte a scuola. Se, da insegnanti di scuola e docenti universitari saremo in grado di fornire gli anticorpi ai nostri alunni e studenti, allora ci saranno spettatori critici e consapevoli. Altrimenti saremo preda dell’analfabetismo funzionale, complottismo, populismo e nazionalismo, antivaccinismo, luddismo e fondamentalismi religiosi (non solo di matrice islamica, ma anche cristiana, ebraica, buddista, animista). Saremo in preda all’irrazionalità.
Occorre invece studiare, dedicarsi alla ricerca scientifica e alla didattica.

D – Esiste una speranza nella narrazione cinematografica fuori dagli schemi di genere, cioè romantico, commedia e thriller-poliziesco?

R – I generi sono delle convenzioni. C’è un mondo al loro interno e al di fuori delle classificazioni di genere. Il cinema è pieno di esempi meravigliosi di Resistenza. Sono molto ottimista, anche se studio le rappresentazioni audiovisive distopiche. Forse perché sono a contatto con studenti pieni di dubbi. E i loro dubbi sono la mia prima speranza.

Legenda: D=Domanda; R=Risposta.

 

 

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Paolo Zerbo
Paolo Zerbohttp://zarbos.altervista.org
Paolo Zerbo Direttore responsabile Laurea in Sociologia Communication skills and process model ICT developer
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