(di Salvo Vasta) Una tradizione non è fatta per essere semplicemente recepita o accettata. Bisogna comprenderla, studiarla a fondo. Il senso del tramandare non deve essere interpretato come un giogo che sovrasta ciondolante le spalle o costringe il collo. Nella sua inevitabile ripetizione, la tradizione rievoca, rammenta, ricorda, fa riaffiorare le originarie emozioni che l’hanno fondata e persino tutte le stratificazioni che a essa si sono inevitabilmente aggiunte. Per essere legati a una tradizione, per aderirvi, persino, bisogna essere attivi ma lenti, talvolta abbandonati alla contraddittorietà di significati che si riesce vagamente a intuire, perché lontano è il tempo che ci separa dal suo tempo.
Così intesa, rimane oneroso il problema di gestirla nel presente e, cosa più complicata, consegnarla al futuro. Partiamo dal presente.
Difficile pensare che, in quanto tradizione, essa si ‘consegni’ da sola e faccia il suo corso al di sopra della testa degli uomini. Essa vive scontatamente dentro le loro teste, si anima del tempo dei viventi, ne patisce e sconta le sofferenze dell’oggi, rimane invischiata nei fraintendimenti a causa dell’uso improprio, delle manipolazioni e delle storpiature. Da queste compromissioni possono nascere nuove mediazioni, influenze, accrescimenti, diminuzioni. La sua forza può attenuarsi, ma può anche essere rilanciata. Il tutto sempre a carico degli uomini, non del Fato. Talvolta, essa potrà pretendere che venga rimossa la patina d’antico, come si fa con i vecchi dipinti, per far riaffiorare la vividezza dei colori e l’attualità del messaggio. Difficile dire che cosa accada, invece, se una tradizione viene appesa al chiodo, musealizzata, agganciata stabilmente (cosa peraltro difficile da fare) a un messaggio, a un’azione, a un significato stabile e ripetitivo. Si capisce con facilità come essa finisca per essere estranea a tutto il resto della cultura di quel presente che la contiene. Finirà per marcire ed essere dimenticata; poi espulsa e cadere dentro il catino degli archivi. E sul futuro?
Va da sé che senza una gestione nel presente, una tradizione non può avere posto nel dopo. Averne cura è sempre sintomo del riconoscimento dell’azione (si immagina positiva) che essa svolge a sostegno di una parte dell’edificio culturale (dico in generale) che la contiene. Pertanto, come porgerla? Come pensare di allegarle un ‘affidavit’, un messaggio che indichi a chi viene dopo che vale la pena continuare a prendersene cura attraverso una qualche modalità? E che spetterà soltanto ai successori di elaborare nuovi strumenti di manutenzione, che ai contemporanei certamente sfuggono e non immaginano nemmeno di poter forgiare?
Uno dei modi possibili per costruire quel messaggio in bottiglia – non appaia provocatorio – è la ‘rottura’ della stessa tradizione. Una qualsiasi tradizione che non venga riaggiornata, ripensandola, è costretta a svuotarsi di significato. Essa persisterà dal punto di vista formale: sarà un segnaposto senza nome, un segnale senza direzione.
Per fare tutto ciò, ammettiamolo pure, ci vuole un po’ di coraggio, soprattutto se le tradizioni sono ben consolidate. Chi accetta la sfida deve essere ben conscio che non può contare sulla hybris. E quindi il lavoro deve essere ben fatto: la tradizione va ‘posseduta’, interiorizzata, sentita, vissuta, fusa dentro la coscienza dell’appartenenza, della forza che da essa promana. Soprattutto, se ne dovrà apprezzare la granularità, i rimandi, le strutture simboliche, per toccare quel filo di essenza che in maniera invariata non appartiene al tempo dell’orologio, alla quantità, ma alla qualità del messaggio che assicurerebbe continuità del prima rispetto al dopo.
Non è fuori luogo annotare che la rottura della tradizione può essere di per sé divisiva, perché il suo aggiornamento crea iniziali insicurezze e contrasta con quegli aspetti confortanti e abitudinari, che rassicurano una parte della nostra identità. Ma la rottura di quel carapace, diventato ormai protezione confortante, come accade per alcune specie viventi, reca con sé lo slancio vitale dell’accrescimento e perciò di una nuova vita, seppur in continuità con la precedente.
In simili trasmutazioni incorre solo chi ha una lunga storia alle spalle; una vera storia, non una narrazione da inventare, come accade ai marchi transeunte, il cui unico scopo è produrre profitti. In questi casi lo sforzo è a termine. Non è il caso dell’Ateneo di Catania, che giusto puntando sulla sua storia ha ritenuto di non poter rimandare l’occasione per guardarsi allo specchio e riflettere se l’abito che indossava era più o meno acconcio al tempo del suo presente, in vista di altri appuntamenti futuri. Si immagina altrettanto numerosi e importanti.