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L’antieroe della storia e della letteratura è zoppo e mancino

Per cambiare il mondo è meglio essere mancini e zoppi. Questa frase è l’emblema del libro Il mancino zoppo del filosofo Michel Serres, pubblicato nel 2016. In una società come quella umana, dove la percezione tende a individuare delle posizioni innate e incontrovertibili di primeggianti e secondi, il filosofo analizza con i suoi studi la necessità di un ribelle in questa età dolce, dove i parametri di paragone sono ben chiari – belli e brutti, ricchi e poveri, sani e malati – e il mondo ha bisogno di qualcuno in grado a dare il movimento necessario per la scoperta e l’evoluzione. Lo zoppo, per definizione, non può deambulare senza fatica e non può passare inosservato tra la folla; e il mancino, per quanto possa sembrare strano, ancora oggi può subire discriminazioni con radici ben più antiche dell’ignoranza di chi l’addita come “mano del diavolo”. Entrambe le caratteristiche sono da sempre simbolo della ribellione e del movimento, ecco perché biblisti come Haim Baharier e molti cabalisti considerano la claudicanza il “rinvio alla perfettibilità”: lo zoppicare è una metafora del vacillare e, come ogni branca esoterica, il dubbio critico è alla base dello studio e dell’apprendimento per cui è necessario muoversi; se l’uomo non zoppica e vive nell’illusione della sua certezza, non ha ragione di progredire nell’evoluzione.

La Cabala Ebraica associa la claudicanza alla lettera Nun, identificata nello zodiaco nel segno fisso d’acqua dello Scorpione e che, in aramaico, significa “serpente marino”. Nun è la quattordicesima lettera degli abjad semitici, nonché ottava lettera semplice della mistica ebraica. Quindi, una comparazione numerologica e tarologica – ricorrendo agli Arcani Maggiori – suggerisce che la claudicanza assume tradizionalmente questi significati: 14, “La Temperanza” dei Tarocchi, arcano che indica la costruzione paziente, e nella semplificazione numerologica (1+4) il numero 5, che indica l’ambizione e l’intelletto; 8, “La Giustizia” dei Tarocchi, arcano del riequilibrio e del livellare, che in numerologia indica la concezione del confine e del finito (numero discriminato da antiche dottrine numerologiche come “il numero della morte” proprio per questa posizione “di confine”). A questi numeri va aggiunto il 50 che, tra l’altro, riconduce alla semplificazione numerologica del 5: quando Dio rimuove la prova, testata la resistenza e la lotta dell’uomo contro di essa, avviene la nevuà, ossia la profezia. Questa parola, scomposta in nun-ba, indica i doni delle cinquanta porte della conoscenza. Ecco come la claudicanza rappresenta la prova iniziatica per eccellenza, quella sofferenza necessaria all’uomo non per piegarsi, ma per lottare.

Prima che il dualismo platonico prendesse il sopravvento sollecitando la distinzione tra bene e male, prima che molte religioni ne facessero uso a larga mano per individuare il nemico del proprio culto, la figura di rivale e ribelle utilizzata dalla Torah per mettere alla prova l’eroe – quindi, l’antieroe – era denominato Satan. Non è un caso che Lucifero sia un angelo ribelle che precipita e, a rigor di logica, resta zoppo. Quest’episodio si accosta al mito greco di Efesto: Era, per far ingelosire Zeus, resta incinta bevendo un intruglio apposito. Ma, trattandosi di un concepimento privo di amore, nasce un figlio talmente brutto che Era lo scaraventa giù dall’Olimpo. A causa della caduta, Efesto resta zoppo e, da quel momento, sarà l’antieroe dei suoi pari: l’unico dio che lavora e che si rifiuta di vivere nell’Olimpo, nonché costante cercatore di un equilibrio delle sorti ricorrendo alla vendetta.

La tradizione dell’Antico Egitto, punto di riferimento e d’ispirazione degli studi esoterici, non si accontenta di avere uno zoppo nella mitologia: sembra che il faraone Tutankhamon sia stato realmente zoppo. Come lui, altri tre personaggi celebri della Storia sono ricordati con una forma di claudicanza e, caso tanto interessante quanto curioso, sono oggetto di dibattito circa la moralità delle azioni: Claudio, imperatore romano succeduto a Caligola in modo imprevisto, oggetto di sdegno e derisione per le sue condizioni fisiche sino alla sua riscossa determinata dall’ascesa al trono; Tamerlano, condottiero mongolo che ha fondato l’impero timuride in seguito a numerose conquiste che hanno destabilizzato l’Asia Centrale, perseguendo l’obiettivo di riedificare l’impero di Gengis Khan; Riccardo III, reso celebre dall’omonima tragedia shakespeariana, asceso al trono dopo una cruenta faida dinastica senza cui non avrebbe mai ottenuto la corona. Nel bene e nel male, sono tutti zoppi e ribelli.

La Torah, Satan a parte, personifica lo zoppo nella figura di Giacobbe: il nome stesso deriva da Aqeb, tallonare o soppiantare. Già alla nascita, malgrado sia destinato a nascere secondogenito in un parto gemellare, afferra il tallone del primogenito per nascere assieme a lui e “soppiantargli” la primogenitura (Genesi 25, 26). Alla nascita, ancora, Giacobbe non è zoppo ma è già ribelle, perché le due condizioni dipendono l’una dall’altra indistintamente: l’uomo è zoppo perché è ribelle – il riferimento alla hybris greca, ossia alla superbia che conduce alla punizione divina, è chiaro – e l’uomo è ribelle perché è zoppo. Nell’episodio della Teomachia (Genesi 32, 24-34) Giacobbe lotta con un uomo dalla notte all’alba e quest’ultimo, non riuscendo a vincere, lo ferisce al nervo sciatico provocandogli una claudicanza perenne. Nonostante la ferita, Giacobbe continua a lottare finché non sarà l’uomo a chiedergli di cessare lo scontro; Giacobbe non si limita a vincere ma, intuendo la natura divina dell’avversario, accetta di liberarlo a patto di essere benedetto; perché il ribelle agisce forzando il limite. E l’uomo obbedisce: Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini, e hai vinto. (Genesi 32, 29). Israele deriva da Shr, lottare, ed El, Dio. Da questo episodio si deduce come lo zoppo non sia solo un ribelle per ragioni umane, ma un uomo che deve ribellarsi per lottare con Dio. La sua lotta ha una funzione e uno scopo molto alto: l’eroe vive da protagonista grazie a quella luce divina del tutto simile all’occhio di bue di un palcoscenico; l’antieroe fa sì che esista quell’occhio di bue e, senza di esso, non esisterebbe neanche l’eroe. Anche Esopo, secondo diverse tradizioni, era zoppo: essendo schiavo, per evitare i lavori pesanti apprese l’arte dell’affabulazione con cui operò tutta la vita per scuotere le coscienze del popolo sino a sollecitare una rivolta.

Anche i mancini, nel corso della Storia, si sono distinti per le capacità destabilizzanti e ribelli: Leonardo Da Vinci, Napoleone e Mozart, solo per citarne alcuni. E non sono da meno i personaggi della letteratura e del teatro moderno: un esempio fra tanti è Capitan Uncino, il personaggio di James Matthew Barrie, che perde la mano destra e nella sua furia “mancina” garantisce il successo di Peter Pan. Curioso l’aneddoto narrato nel romanzo di Pierdomenico Baccalario La vera storia di Capitan Uncino in cui il pirata, imbattutosi in una tigre dello zoo, riesce a immedesimarsi nella sofferenza dell’animale ridotto in cattività; perché la tigre, sicuramente, è l’animale guida del mancino, dello zoppo e del ribelle. Indomabile e selvaggia, aggressiva nel senso più ancestrale del termine, Rudyard Kipling – che dell’esoterismo ne sapeva parecchio, dato il trentatreesimo grado raggiunto in massoneria – assegna proprio alla tigre Shere Khan il ruolo di antieroe e, ovviamente, è zoppa.

In un’antichissima fiaba indiana, la tigre è anche la sorella dello spirito e dell’uomo: quando lo spirito trova la sua casa in cielo, lascia la spartizione della terra ai suoi fratelli. Per decretare un vincitore, i due si sfidano a una gara di corsa, ma l’uomo sfrutta la lealtà della tigre per ricorrere all’astuzia e vincere con l’inganno. Quando la tigre scopre di aver subito un’ingiustizia, acceca l’uomo con una zampata e si rifugia nei boschi, impedendogli per sempre di vedere la sua anima. E ancora, tornando alla tradizione ebraica, la tigre è il simbolo dell’Ovest, dell’Occidente, dove “si uccide” il sole.

La deduzione più facile e più ignorante è associare tutto questo al male, alle tenebre, alla mancanza di luce; al contrario, lo spirito di conoscenza riconosce il ruolo dell’antieroe come ruota motrice del tempo e dello spazio, custode della Luce posto al confine delle tenebre.

Perché solo chi ha il coraggio di ribellarsi, sia esso mancino o zoppo, è posto al confine per combattere il limite, ampliare le vedute e garantire il ritorno della Luce.

La cosa più importante non è il numero dei nemici, ma come si affrontano. (Shere Khan in Il Libro della Giungla, Rudyard Kipling, 1894).

 

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