Ogni volta che mi ritrovo ad analizzare una messa in scena di un autore classico mi pongo sempre la stessa domanda: perché questa scelta e non un’altra? C’è stato un evento della vita dell’autore che lo ha influenzato al punto tale da scegliere un argomento come quello dell’umiliazione, del rimorso, del perdono, dell’amore tradito e della vendetta, causata da una folle e “ingiustificata” gelosia e che non lo avesse riguardato personalmente? La nevrosi in questione è nota come “Sindrome di Otello”.
E così a prima “svista” il regista Orofino ha messo in scena la storia di Enrico IV, ricchissimo nobiluomo che durante una carnevalata, cade da cavallo, perde la memoria di sé stesso e vedendosi in quei panni medievali si convince di essere l’imperatore Enrico IV. È quello famoso per aver chiesto perdono della propria hybris, (superbia), in ginocchio nella neve, per tre giorni a papa Gregorio VII. Per farsi togliere la “scomunica”, il papa i dovette recare a “casa” di Matilde, una sua sostenitrice, appunto nota come Matilde di Canossa. Ma tornando allo spettacolo, per 12 anni consecutivi, i sedicenti parenti, compreso la donna amata, appunto la marchesa Matilde Di Spina, interpretata da una nevrotica e convincente Carmela Buffa Calleo, reggono “il gioco della pazzia necessaria”, soprattutto legata alla loro “economica” sopravvivenza.
Fin quando, proprio per la naturale e giuridica interdizione, ed è la scena che ci riguarda, “la tralignante famiglia” chiama “in scena”, incarica uno psichiatra, uno pseudo-Freud, il dottor Dionisio Genoni, splendidamente rianimato da Luca Fiorino, per dimostrare in una sorta di psicodramma moreniano, “autorizzato” al fine di “redar-guarire” il folle o per meglio capire se si era in atto di fronte una simulazione. La pazzia reale sarebbe stata un guadagno per tutti: una “malattia” da cui prendere le distanze per dichiarare al mondo perbenista e altoborghese una rinnovata e “purificata” edificazione della propria pubblica dignità, della “famiglia” in questione. Probabilmente sempre ai fini di una consistente o fantomatica eredità, esigibile da un punto di vista legale.
Questo, nei fatti, anzi, nel prologo, così tanto caro ai nostri autori greci, che noi spettatori “ignari” abbiamo potuto presagire, dal dinamico via vai degli impagabili “servi di scena”, Lolo, Momo e Fino rispettivamente Giovanni Arezzo, Giuseppe Ferlito e Daniele Bruno. Infatti l’apparente caos della scenografia con le trovate geniali di un guardaroba semovibile, risultato di una geniale visione di Vincenzo La Mendola, tentano di ricomporre una messa in scena, della “scena primaria”, come direbbe appunto Freud, per far rivivere il trauma al protagonista “un astuto e caparbio” Miko Magistro, magistralmente posto, nel ruolo di “nevrotico attuale” a smascherare l’ingombrante farsa, dove tutti i protagonisti sono parenti tralignatori, coinvolti, come solo un thriller hitchcockiano potrebbe preconizzare. Viene in mente il film “Marnie”, dove la protagonista, un’incallita e frigida cleptomane, scopre e risolve il proprio trauma, tramite “la caparbietà e l’astuzia” di un uomo che la sposa e le rimuove i sensi di colpa, i rimorsi, che l’hanno “costretta” ad interpretare una dissociazione mentale di sé stessa.
Ma c’è ancora di più nella messa in scena di Orofino. La libertà degli attori di interpretare sé stessi nel ruolo duplice di complici nella vita e nella finzione scenica, come nella scelta degli abiti da indossare e quindi nei ruoli storici in cui apparire: c’è un richiamo senza dubbio consapevole ad una vicenda privata di Pirandello.
La vicenda riguarda la moglie di Pirandello, che a causa della “pazzia” dopo diversi anni di cure e assistenza, come direbbe Lui “purtroppo”, dovette internarla in un manicomio: e siamo nel 1919. Si dice che la moglie, Maria Antonietta Portulano, da lui sinceramente amata, avrebbe investito la propria dote nella miniera della famiglia Pirandello. La moglie diventò “pazza”, socialmente instabile, e gelosa oltre ogni parossismo, financo della figlia Lietta, a causa di un fatto rovinoso che li porrà sul lastrico. E siamo nel 1903. Per 16 anni la vita di Pirandello diventa un inferno. Un “inferno familiare” a cui lui sicuramente ha dovuto soccombere, tramite un’infinita istanza dei parenti tralignatori, sia i suoi, che quelli della moglie “indagata”. E come ogni grande genio “dall’immaginario malato”, in grado di sublimare la propria coscienza, la propria anima, ferita e mutilata, così Pirandello si trovò a colmare il suo rimorso, il suo senso di colpa, con il dramma Enrico IV, che appare in scena nel 1922. Quindi nel 1919 interna la moglie e nel 1922, appena 3 anni dopo, il “tempo giusto” per scrivere un’opera e metterla in scena, esordisce con l’Enrico IV.
Ma manca ancora un particolare su cui resteremo sospesi e su cui ci sospende lo stesso Orofino: il ricchissimo nobiluomo che insiste ad essere Enrico IV che dopo 12 anni esce dalla sua follia e continua a fingersi pazzo per far confessare, a noi spettatori, osservatori ignari, l’ordito tramato, dal barone Tito Belcredi, è a conoscenza del delitto tramato nei suoi confronti e si è dissociato diventando pazzo per tale misfatto?
Il barone Belcredi è colui che lo voleva morto, gli disella il cavallo, durante la carnevalata per rubargli l’amata, la marchesa Matilde. Matilde, rea, ammettiamolo pure, “in-cosciente” del delitto programmato, ne sono testimoni i suoi tic nevrotici, e il suo “plebeo complesso di Lady Macbeth”. Col suo infinito ignavo, torturato e ambiguo andirivieni, ha creato nella personificazione del “suo rimorso” simbolicamente parlando, nel barone Belcredi, un perfettissimo e algido, Santo Santonocito, un mostro di “calda perversione”. Insieme “s’offrono”, sotto forma di agnello sacrificale in fresca e giovane sembiante, la rediviva figlia Frida, una meravigliosa isterica, Anita Indigeno, con uno stress-correlato amante, il perfettamente algido Gianmarco Arcadipane. Come se nulla, che li riguardasse fosse accaduto. Magari la nuova “Matilde”, come Frida, che gli era stata presentata, per fargli intestare tutta l’eredità che ancora gli rimane, dopo tutte le “teatrali ruberie”, perpetrate nei rispettivi 12 anni di vera follia e negli 8 anni di simulazione. La figlia dei traditori di “Enrico IV”, la marchesa Matilde e il barone Belcredi, Frida, ha ora approssimativamente 20 anni, mentre Enrico IV fingendosi pazzo nel riconoscere il suo “vecchio” ne avrà 50 e forse più…
Proprio nel 1922, quando viene messo in scena per la prima volta Enrico IV, Pirandello, che ha 58 anni, vedrà a teatro per la prima volta Marta Abba, l’attrice che sarà la sua musa ispiratrice. Marta ha 25 di anni: esordisce nel dramma Il gabbiano di Čechov diretta da Virgilio Talli. Negli anni successivi Marta Abba diventerà la protagonista incontrastata della sua compagnia Teatro d’Arte di Roma, nonché la “sua amata”, ancora oggi si suppone “platonica” fino alla sua morte nel 1936. Ne sono testimoni le circa 500 lettere del loro carteggio.
Sì, forse l’Enrico IV è una laconica prova del suo “infinito” rimorso rispetto all’abbandono forzato della moglie in manicomio e la sublimazione dell’amore ispirato, della “libido” come la chiamerebbe Freud, nei confronti di Marta Abba, impossibile da “amare”, impossibile da sposare. E l’uccisione di Belcredi, mentre il nobiluomo finge ancora di essere nella sua follia Enrico IV, potrebbe essere lo stesso Pirandello che uccide la moglie in manicomio per rendersi libero di sposare Marta Abba. Quien sabe? Questo è il bello di leggere e vedere la messa in scena dei classici: non finiscono mai di sorprenderci e di leggere nuove cose. Soprattutto grazie ad una “colonna sonora” che ci dissocia, ci rinfranca e ci tiene “svegli” nelle due ore a “volte vaghe”, nella “immensa onda onirica” del regista Nicola Alberto Orofino.
Le foto sono di Dino Stornello